L’antico Borgo

010Squarci di cielo si aprono sulle case, lame di luce scendono taglienti a illuminare le ombre mentre il silenzio ingigantisce il rumore dei passi sul selciato. Strette viuzze si inerpicano verso il monte dominato  ancora dagli imponenti resti del Castello, residenza di antichi principi, dove per secoli agli agi e ai lussi  dell’aristocrazia torrigliese hanno fatto eco i lamenti dei carcerati. Siamo nel cuore antico del borgo, un triangolo equilatero racchiuso tra via Guani, via Magioncalda e via Roma.

Qui le  case sono addossate le une alle altre, in posizione difensiva. Un’unica palizzata per far fronte agli antichi assalti di feroci fuorilegge messi al bando dalla Repubblica genovese o dal Marchesato di Torriglia. Notti di terrore in cui si poteva perdere facilmente la vita anche tra le mura domestiche e le donne correre il rischio di essere violentate sotto lo sguardo del proprio marito o padre. Il condannato al bando era costretto a  dedicarsi ai furti e ai saccheggi per campare, perché nessuno poteva dargli aiuto o ospitalità se non a prezzo di essere a sua volta perseguitato dalla giustizia. 002

Alcune case torri  vi si innalzano, da dove osservare indisturbati attraverso finestre o guaite.

Le finestre, segno tangibile della tipologia delle abitazioni e quindi di distinzione economica e sociale. I palazzi, un tempo dimora di famiglie aristocratiche o al servizio della pubblica autorità, presentano ancora oggi eleganti sovra archi in pietra magistralmente scalpellata, sormontanti luminose ed eleganti aperture. Quelli dell’antica pretura, nei pressi di Piazza Fieschi, “a ciassa vegia”, ne sono un fulgido esempio. Il popolo invece si serviva di  un travetto di castagno stagionato che veniva posto sopra l’estremità superiore della finestra a reggere il peso del muro. L’apertura in questi casi era di modeste dimensioni, strombata verso l’esterno per  raccogliere la luce e non fare entrare mo005lto freddo, far uscire più velocemente il fumo ed  osservare senza essere visti. Per i davanzali ci si serviva delle “ciappe sarvaeghe” che venivano estratte in cave vicine.

Alcune abitazioni lasciano trasparire dal recente intonaco segni di un antico passato: piccoli archi, parti di muratura in pietra. Antiche pietre, sbozzate a scalpello, dalle abili mani di artigiani provenienti dal Lago di Como dal quale presero il nome di maestri comacini.

Le pietre che vennero usate nelle nostre costruzioni erano in larga massima di due tipi. Una era la cosiddetta “pietra colombina” che non è altro che il calcare marnoso dell’Antola, una pietra grigia molto bella e facilmente lavorabile. Il suo uso è molto antico giacché  se ne trova tr003accia anche a Donetta in pilastri  risalenti al milleduecento. L’altra, meno duttile, è la cosiddetta “prïa rossa”, un’arenaria rossa molto dura che può contenere quarzo. Normalmente  era usata come riempitivo.

 I muri, se si sanno leggere, sono come pagine di un libro. Dalla loro base se ne conosce la vetustà:  quelle a scarpa sono i più antichi. Con il miglioramento del legante, le murature gradualmente si costruirono a piombo. La calce veniva prodotta in loco. C’erano dei forni da calce in cui il calcare marnoso veniva frantumato e ammonticchiato in fornaci, alternato a strati di legno di qualità quali rovere o faggio o più probabilmente carpino e cotto ad alti gradi per produrre la calce viva. Questa era prima mescolata con sabbia di fiume. La sabbia veniva raccolta nelle pozze formate dai fiumi Trebbia o Scrivia. Il trasporto della sabbia del Po era decisamente poco conveniente a causa dei forti costi. Con i muli si portava nei posti di impasto dove veniva unita alla calce e si otteneva la malta. Le pietre venivano allineate con precisione e “legate” tra loro con la malta. L’allineamento delle pietre effettuato dai mastri di muro prevedeva che la pietra della fila superiore fosse posta  sopra la linea di congiunzione delle due situate nella fila inferiore. Nel medioevo la qualità della calce era più scadente; era necessario scalpellare la pietra con molta precisione per poter  farla combaciare alle altre nella maniera migliore e utilizzare la minor quantità di malta, perché altrimenti il muro non sarebbe stato saldamente stabile. Successivamente la calce fu migliorata e tale tecnica si rese meno necessaria abbassando di conseguenza i costi di costruzione.

In poche centinaia di metri si condensava l’animata vita del borgo e Piazza Fieschi ne rappresentava il cuore pulsante. Qui si aprivano le scuole, la pretura, mentre mercanti e artigiani si affaccendavano nelle loro attività e commerci. Sul lato basso dello slargo, si apriva la galleria dei ciabattini, impegnati a fabbricare “brocchin” in cuoio di ottima qualità, legati a mano con canape di filo ingrassate e chiodati. Le chiodature erano necessarie per muoversi su strade ghiacciate  e raggiungere le frazioni.

Nella piazza si esponevano al pubblico ludibrio i condannati alla gogna. I condannati erano posti qui, perché  “a ciassa” era posta sulla direttrice tra il castello e la chiesa che costitu009iva la via più frequentata. La partecipazione  alla messa domenicale, già prima del medioevo, è sempre stata un momento di aggregazione importante. Tutte le famiglie vi prendevano parte, perché  altrimenti si correva il rischio di porsi in maniera non consona ai dettami della comunità e delle autorità. Le persone arrivavano anche da frazioni e paesi vicini e l’afflusso era veramente notevole. Al ritorno della funzione religiosa tutti potevano meditare sulla giustizia del principe.

Qui erano presenti le eleganti dimore di famiglie piccolo nobiliari come gli Ansaldi e i Magioncalda, esponenti di antica aristocrazia, costretti a fuggire nell’aprile del 1797 ad Ottone e Cerignale davanti ai democratici spinti dallo spirito di libertà portato dalla Rivoluzione Francese. Al grido di “Liberté, Fraternité, Egalité” venne erettol’albero della libertà.

Al numero cinque della piazza un secolo più tardi si sarebbe affacciata una delle tante Belle di Torriglia. Sorella di un noto avvocato genovese, la bella Maria Traverso è forse la più nota rappresentante di questa figura nata dalla cultura popolare nostrana. Venivano ragazzi da tutti i paesi per vedere q014uesta bellissima donna.  L’artista Pietro Lumachi l’ha magistralmente rappresentata nel suo dipinto posto sotto l’arcata che mette in comunicazione la piazza e il ponte detto di San Colombano. Nato dall’idea di alcuni membri dell’Associazione di Piazza Vecchia tra i quali lo storico Mauro Casale, si pensò dapprima ad una statua, poi  si decise per una rappresentazione pittorica. Il quadro fu realizzato durante un inverno all’interno del garage  del pittore situato nella zona del Carmo. Tutto il materiale di elevata qualità fu fornita dall’Associazione, mentre Lumachi non volle nulla per la realizzazione dell’opera. Il dipinto è fissato al muro con una cornice di ferro eseguita dall’artigiano Brandi e posto sotto un vetro antiproiettile. Maria Traverso, vestita con un corpetto e una gonna rossa si affaccia dalla finestra prospicente via Roma, lastricata a rizzuolo. Alla sua sinistra una sedia impagliata, sulla quale è appoggiata una “toffanea”, contenitore in legno, dove vengono conservati castagne, patate e funghi porcini nostrani. La giovane donna ha in mano l’amua, contenitore di terracotta prodotto nella zona di Albisola. L’amua era un’unità di misura genovese, corrispondente a circa 0,780 l. e dava il nome a questo tipo di piccola brocca. In basso un sornione gatto nero osserva lo spettatore.

Se Maria Traverso è la “Bella” più conosciuta, certamente non fu la prima. Si narra dell’attraente Clementina, amante di Sinibaldo Fieschi, Principe di Borgo Val di Taro, dal quale ebbe tre figli. Sinibaldo di certo non poteva riconoscerli, ma si dimostrò generoso sia verso la progenie che verso l’affascin007ante Torrigliese alla quale lasciò due appartamenti in Canneto in quel di Genova.

L’appartamento della graziosa Maria Traverso non esiste più, ma certamente non doveva essere meno per fascino alla beltà della sua proprietaria. All’ingresso, un salotto tappezzato in turchino con decori in argento dovette sembrare quasi un luogo magico agli occhi di un  bambino del paese che ebbe l’occasione di entrarvi e ormai giunto in età avanzata ne lasciò  il ricordo all’amico Casale. Dell’abitazione restano solo i montanti in ardesia di un caminetto quattrocentesco situati a sinistra dell’opera di Lumachi e decorati con bassorilievi in fogliame e melograni, simbolo di fertilità,.

Sulla parete dell’arcata trova anche posto un bel lavoro di Christian Paris.004 Un decoro che raffigura l’antico stemma della comunità di Sant’Orsola sulla base di un documento datato 1796, rintracciato da Mauro Casale nell’archivio della famiglia Doria Pamphilj a Roma. Rappresenta tre torri in fila, l’ultima delle quali espone una bandiera a significare l’inizio della fiera. La fiera poteva incominciare solo quando dalla torre del castello veniva esposta una bandiera. Questo simbolo testimonia il diritto di fare fiera, diritto ribadito  da legge imperiale. Il campo blu e argento rimanda  allo stemma fliscano.

La residenza di Maria Traverso venne in seguito in possesso di Don Carraro, sacerdote, ma anche storico e archeologo. Nel 1929 per ridar vita al borgo antico, depauperato  della sua centralità in seguito alla realizzazione nel 1870 della strada nazionale  tra Genova e Piacenza, Don Carraro cedette gratuitamente l’appartamento affinché fosse aperta l’attuale arcata per congiungere il centro storico torrigliese al percorso diretto a Casaleggio. Attraverso raccolte pubbliche di denaro e anticipi di tasca propri008a, finanziò la costruzione del ponte detto di San Colombano che scavalca il rivo Giulio. Il ponte, realizzato con un elegante doppio ordine di archi, fu poi in anni più recenti ristrutturato dalla Provincia di Genova che ne rispettò l’impianto originale. L’allora vicesindaco Mauro Casale, ammirato dalla figura del sacerdote che non ebbe occasione di conoscere, ma del quale riordinò l’archivio, volle far edificare una piccola edicola dove viene conservata la scultura di San Colombano, realizzata da artigiani di Brugnato, per esaudire il desiderio del defunto sacerdote. Per risolvere problemi di stabilità, gli operai della Provincia effettuarono dei carotaggi allo scopo di eseguire un riempimento di cemento e rinforzare il fronte della  struttura. Arrivarono ad una profondità dalla superficie del ponte di 14 metri. Ne consegue che sotto il ponte esistono degli spazi vuoti che probabilmente servivano da serbatoi. L’originale rete idrica dell’antica comunità era costituita da  un’esigua quantità di tubi in terracotta. L’acqua non arrivava in casa, veniva presa alle fonti salvo poche dimore di ricchi benestanti dove erano presenti cisterne sottostanti i pavimenti. Nel centro storico ve ne sono diverse, una è anche sotto la biblioteca in Piazza Fieschi . L’acqua  raccolta dalle cisterne veniva bollita prima di essere bevuta. La maggior parte della popolazione attingeva l’acqua potabile alla fontana grande vicina alla piazza del borgo utilizzando brocche e altri contenitori.

Per lavare ci si serviva dei “treuggi” pubblici. I trogoli rappresentavano un luogo di incontro e socializzazione . Il trogolo è diviso in due vasche. Nella prima si prendeva l’acqua pulita per bagnare i panni e insaponarli; la  seconda vasca era riservata al risciacquo e allo smaltimento delle acque reflue. In paese esistono ancora tre trogoli, ultimi testimoni di un passato tutto sommato non troppo lontano. Uno è prospicente il rivo Giulio, il secondo è in Piazza Gastaldi, il terzo è in cima a via Magioncalda che orig016inariamente era chiamata via del Carmo.

Nelle vicinanze di quest’ultimo, una bella lapide marmorea rappresenta la Madonna del Carmine alla quale i Torrigliesi riservarono una grande devozione, almeno fino al terribile agosto del  1836, mese in cui un’epidemia di colera provocò la morte di cinquantatre persone.  La sera del 28 agosto per la prima volta fu portata in processione la statua della Madonna della Provvidenza. L’epidemia cessò e da quel momento il culto verso Nostra Signora della Provvidenza si consolidò.

L’importanza di avere una fonte era tale che la generosità di P. Giovanni Nicola 006Guani nel donare la propria alla comunità venne ricordata e celebrata con una lapide marmorea nel lontano 1781, ancora visibile presso il portone di una casa nell’omonima via.

 

La famiglia Guani era una delle famiglie più ricche di Torriglia  e di Genova. Ricopriva cariche importanti soprattutto nel campo della medicina, ma anche in altre attività e aveva in mano un buon 40% dell’economia del paese.

Dove via Magioncalda confluisce in Piazza Fieschi, sorgevano forni di pubblica utilità. Solo pochi potevano permettersi il lusso di possedere piccoli forni esterni, la maggio parte della popolazione preparava il pane in casa, ma lo cuoceva in forni gestiti da privati ad uso collettivo. Questa zona è ancora ad001esso conosciuta con l’appellativo di “zona di forni”.

L’esiguo spazio edificabile disponibile portò a moduli di costruzione ancora oggi utilizzati. Uno era quello di edificare scale esterne protette da parapetto per cercare di spendere meno e di non sprecare spazio interno. In cima veniva previsto uno spazio da fruire nel periodo estivo. Il sottoscala era riservato a legnaia o adibito a piccola stalla per una pecora o un asino.

Nel punto più stretto di via Roma, l’antico “Carroggio grande”, si trovavano le porte del Borgo. Don Carraro negli anni ’20 del secolo scorso ne ricordava ancora i cardini. Le porte venivano chiuse dal tramonto all’alba e nessuno per quelle ore poteva entrare o011 uscire. C’era chi aveva l’incarico di chiudere le porte e aprirle. La sicurezza era garantita da presenze militari del castello.

Al di là delle porte, in Piazza Doria, ora Gastaldi, la potente e nobile famiglia genovese tentò di far nascere un’attività industriale a Torriglia, creando una serie di laboratori dove si tessevano, tingevano e commerciavano lana, canapa e lino. Vi si lavorava anche il corallo. Questi laboratori  presero il nome di “Lavorerio delle Figlie” e di “Lavorerio degli Huomini”. Lo “Statuto del Lavorerio”, sorta di regolamento elaborato dagli esperti del Principe, ne regolava l’attività.

 

 

 

Maurizio Adami

 

Pro Loco Torriglia ringrazia il  Signor Casale Mauro per la consulenza storica