La dura legge del Principe

03Del possente, millenario complesso militare e civile del Castello, la Torre è l’unica parte, se si escludono i bastioni, ancora chiaramente leggibile. Struttura imponente che, come descrive il Don Carraro, vantava un’altezza di ben diciannove metri e forma quadrata con lati di sette. I muri appoggiano su un impianto decisamente molto più antico, probabilmente di epoca bizantina. All’interno dell’attuale vano è ben identificabile un arco edificato alla maniera dell’antica Roma. Se si osserva, vediamo due pietre laterali che fuoriescono leggermente. Sulle due pietre si posava una sesta di legno a semicerchio e con l’ausilio di questa erano sistemati i conci arrotondati e trapezoidali, incastrati senza l’aiuto di calce. La sesta in seguito veniva tolta o meglio bruciata, nel timore che il movimento della stessa avesse potuto provocare crolli.   Il massiccio edificio, archetipo di protezione e dominio  dell’autorità,  destava tra i sudditi del Principe il contrastante sentimento di sicurezza e timore.  La costruzione fu adibita a prigione. Al suo apice esterno presentava merli guelfi risalenti all’epoca del possedimento fliscano. I Doria, poi succeduti e legati all’Impero Asburgico, li mantennero, quasi certamente per un pratico motivo economico. D’altra parte i partiti guelfo e ghibellino facevano ormai parte del passato. Lo schiavo Hamat, nelle sue riproduzioni semplici, ma allo stesso tempo molto dettagliate, lo disegna con un tetto a punta. Sta di fatto che il tetto scomparve e fu sostituito da un lastrico solare, la cui impermeabilità non era certamente tra le più perfette se nel 1672 un gruppo di prigionieri fece richiesta di essere rilasciato dal carcere della torre perché umido. L’edificio presentava tre ambienti sovrapposti: il 02carcere di cima, quello di mezzo e quello di fondo. Le volte erano a botte e, prosegue il Don Carraro nella sua opera “Il Castello di Torriglia”, erano alternate alfine di distribuire la loro pressione su tutti i lati. Gli ambienti erano collegati da una scala in legno, le cui tracce sono ancora visibili sulla parete interna destra dove poggiava. Ai muri erano fissati degli anelli ai quali erano legate le catene che serravano i prigionieri. Le caviglie dei carcerati erano poi strette da appositi ferri.  Ai prigionieri era dato un’amua, brocchetta tipica di origine albisolese, e un cantaro. I cantari erano svuotati dalle guardie in un buco ricavato nell’impiantito della cella. Questo buco era coperto da un coperchio di legno. Una volta riempito, i rifiuti organici erano utilizzati come concime. Per dormire solo paglia per terra. I prigionieri dovevano indennizzare l’autorità per il misero vitto ricevuto salvo se “questi non sono in totale abbandonamento, di maniera, che tardando a darglielo potrebbero patire. Si ricorda che rispetto ai figli, sono obbligati li loro padri…Detto pane si somministra a titolo d’imprestito, onde quelli che lo ricevono sono tenuti a pagarlo”. Quasi sempre i prigionieri erano indotti a confessare attraverso la tortura. Esisteva a riguardo un apposito locale (Locus torture), forse adiacente alla torre, dove sotto lo sguardo del Cristo crocefisso il prigioniero era sottoposto alle sevizie previste. Nel corso del ‘500 si usava stendere il malcapitato sul pubblico “Cavalletto od eculeo” consistente in un tavolo che per mezzo di appositi meccanismi veniva inarcato all’improvviso provocando squassi violenti al dorso ed alle gambe dell’imputato. Dalla fine del ‘500 a tutto il ‘600 venne adoperato il “tormento della corda”. Questo consisteva nel legare le braccia all’indietro del poveretto che con una carrucola veniva più volte sollevato e tenuto appeso fino a che il dolore provocato dalla slegatura dei muscoli lo costringeva ad ammettere le proprie colpe. Dalla tortura erano dispensati i malati e chi dichiarava spontaneamente il proprio reato. La terribile procedura era eseguita dal Bargello e dagli sbirri alla presenza del Commissario che conduceva l’interrogatorio e dell’Attuario (Cancelliere) che verbalizzava tutte le domande e le risposte. Le01 domande erano riportate in latino mentre le risposte nella lingua volgare parlata dal carcerato. La condanna era decisa al Banco della Ragione, banco coperto di cuoio bulgaro che si trovava all’interno della “Salla Magna” posta al secondo piano dell’edificio che ospitava l’appartamento del Principe. La “Salla Magnaera il luogo dove i Torrigliesi potevano risolvere le proprie controversie e dove erano processati imputati di gravi reati come l’omicidio, il sequestro di persona, lo stupro, ma anche crimini minori come la bestemmia o l’aver consegnato lettera disuggellata. La sala era riscaldata da due grandi camini, alla parete un quadro di Andrietta Doria e agli angoli quattro putti in gesso. Il soffitto era decorato da una pittura raffigurante “La sfera dell’orologio”. Da un lato, come già scritto, stava il Banco della Ragione, dall’altro le cadreghe da braccio dei Principi, il baldacchino con l’aquila dei Doria e l’effige dell’imperatore Carlo V. Le condanne variavano secondo la gravità del misfatto. Per quelli più gravi era previsto la condanna a morte, il Bando dal feudo o il “Perpetuum remigandum” vale a dire condanna perpetua al remo delle Galee genovesi. Le condanne a morte dapprima furono eseguite per decapitazione poi venne adottato il sistema dell’impiccagione. Il corpo del condannato era appeso fino a che “anima a corpore separetur” (fino a che l’anima non si separava dal corpo). Alla morte del condannato seguiva lo smembramento del suo corpo. La testa era appesa alla Torre del Castello, un braccio o altro brandello del corpo era appeso ad un palo infisso nel luogo ove era stato commesso il delitto, l’altro sul luogo dell’esecuzione. Delle sentenze era incaricato il carnefice, chiamato da Genova e pagato dal Principe. Solitamente il boia arrivava nei nostri territori per eseguire più condanne a morte previste in paesi limitrofi. A Torriglia le esecuzioni avvenivano al Poggio delle For05che collegato al Castello da una strada a rizzuolo, le cui tracce sono ancora oggi visibili, parallela a quella che conduce alla frazione di Colomba. Altre volte erano previste nei pressi della Cappelletta di Sant’Antonino. In questo luogo fu eseguita nel 1751 la condanna a Giulio Cesare Gatti di Brignano Frascata che assieme al fratello, mulattiere anch’esso, ebbe una violenta discussione a Capanne di Carrega e uccise un altro mulattiere e ne ferì un secondo. Le cronache raccontano che passò la sua ultima notte in uno stanzino adiacente la prigione assistito dal cappellano che lo confessò e gli somministrò l’estrema  unzione. Il condannato si disse pentito del misfatto e dichiarò di lasciare l’anima a Dio, la testa al Principe e il corpo alla comunità, come all’epoca usava. Addirittura fece vedere che per un difetto ai polsi avrebbe potuto liberarsi delle manette e lo dimostrò. Venne impiccato alla presenza di tutte le autorità del castello, con il Bargello, gli sbirri che lo tenevano legato, il carnefice e il suo aiutante. Una ventina fra sacerdoti e confratelli dell’oratorio di S. Vincenzo assistettero all’impiccagione. Il boia era coadiuvato dal cosiddetto “scianca colli”, così chiamato perché tirava le gambe dell’impiccato per spezzargli il collo e risparmiargli una lunga agonia. Dopo l’esecuzione la testa di Cesare Gatti staccata dal corpo fu messa in una gabbia di ferro e portata a Carrega , luogo dell’omicidio, e appesa alla facciata del tribunale (l’edificio esiste ancora oggi). Il corpo venne traslato in processione con i sacerdoti che cantavano e portato in cimitero con l’accompagnamento dei confratelli dell’Oratorio di San Vincenzo. Il condannato al bando non poteva ricevere assistenza di nessun tipo e alla fine si dava al saccheggio per sopravvivere. Chiunque avesse aiutato un condannato al bando sarebbe stato a sua volta perseguitato dalla giustizia. I condannati alle Galee genovesi erano condotti sotto scorta alla Scoffera e affidati al Magistrato della Podesteria del Bisagno contro il rilascio di ricevuta firmata. Prima di essere posto ai remi, era portato alle mura della Malapaga dove erano radunati tutti i galeotti condannati al remigandum perpetuo o limitato a un determinato numero di anni. Pena altrettanto temuta era la relegazione nella fortezza di Bardi o di Stellanello proprietà d04i casa Doria. A dimostrazione di ciò la registrazione di una tentata evasione avvenuta nel carcere di fondo del Castello nel 1682, quando un certo Camia, prima di essere trasferito a Bardi, cercò di dar fuoco alla porta aiutandosi con uno straccio imbevuto dell’olio della lanterna dopo averlo fatto scivolare all’esterno attraverso uno scavo eseguito con un rasoio senza punta e un osso di maiale. Questo episodio aiuta a comprendere anche l’avvenuto miglioramento delle condizioni  di detenzione nella Torre. Le condanne per i reati minori andavano dalle pene pecuniarie alla Berlina o “Collariam”. La Berlina consisteva nell’imprigionare collo e mani del condannato in una specie di giogo di legno ed esporlo al pubblico scherno, solitamente nella “Platea Magna” (attuale Piazza Fieschi) dopo la funzione parrocchiale, a volte per un’ora, a volte per più giorni due ore al giorno. La detenzione preventiva era molto lunga e altrettanto tempo occorreva per l’emissione della sentenza definitiva. Talvolta il carcerato moriva prima di essere giudicato. A chi se lo poteva permettere era concesso pagare una cauzione in denaro detta “Sicurtà” che garantiva al prigioniero il rilascio. Nei casi più penosi, interveniva il Parroco per richiederne l’ottenimento.

 

Maurizio Adami

 

Pro Loco Torriglia ringrazia il  Signor Casale Mauro per la consulenza storica